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Ristorazione alberghiera: what’s the problem?

Perché, c’è un problema?

La risposta sembrerebbe essere NI.

la ristorazione è un settore fondamentale per l’hôtellerie: ciononostante, normalmente, genera un 20% di ricavi e un 80% di problemi» (Gabriele Enrico, Avalon Food & Consulting).

Se da una parte se ne riconosce l’importanza, da un’altra se ne temono i rischi, legati principalmente all’enorme mole del personale coinvolto e ai bassi margini di profitto che se ne ricavano, quasi insignificanti se confrontati a quelli assai più alti del Rooms Division.

Ma, volendo evitare di generalizzare, bisogna andare nello specifico delle diverse realtà ristorative presenti in hotel: ristorante per gli ospiti in regime pensionistico, ristorante per gli esterni, lobby bar, roof terrace bar, bar a bordo piscina, lounge bar, sushi bar e una miriade di variazioni sul tema.. A voler semplificare si potrebbe riassumere il tutto in quattro categorie di outlet: ristoranti, bar, servizio in camera e banqueting.

Diciamo subito che bar e banchettistica non dovrebbero avere problemi né di budget né tantomeno di appeal e opportunità. Di essi si parlerà in un successivo articolo.

È bene concentrarsi subito, dunque, sugli anelli deboli della catena, ovvero ristorante e servizio in camera.

Innanzitutto, è importante che siano presenti in hotel? 

Certamente, ma non per ossequio alla tradizione o per ostinazione autolesionistica.

Chi ha esperienza e conoscenza profonda del settore sa quanto sia decisivo e fondamentale il ruolo che la ristorazione riveste nell’ambito della vita stessa di un hotel.

Assicurare all’ospite il massimo o anche il minimo comfort possibile, deve essere l’assunto di ogni buon albergatore. Soprattutto chi è costretto a viaggiare per motivi di lavoro, deve potersi sentire “a casa lontano da casa”. 

C’è chi, infatti, tende a replicare in albergo abitudini e comportamenti routinari: il caffè appena svegli, la colazione prima di vestirsi, uno spuntino pomeridiano o notturno. E quale possibilità può avere un hotel per andare incontro a tali esigenze se non con il servizio in camera?

Se riflettiamo sull’altra macro-categoria di ospiti, il leasure traveller, si può notare che certamente non ha quel tipo di esigenze, probabilmente non ha voglia di “sentirsi a casa lontano da casa”, magari è più aperto a rinunciare alle sue “abitudini rutinarie” e più propenso alla novità, alla scoperta e dunque al rischio. Ciononostante desidera essere coccolato e viziato.. e anche in questo caso, il servizio in camera rappresenta un potente strumento che permette di soddisfare tali bisogni.

L’hotel dovrebbe, insomma, essere in grado di fornire servizi ristorativi, che oltre al ristorante vero e proprio, prevedano servizi di Room Service, Bar e Cucina d’emergenza, per soddisfare la varietà di esigenze, talora anche sporadiche, degli ospiti che sforino l’orario canonico dei pasti principali.

È possibile che di notte arrivino anche solo un paio di richieste al room service e, per soddisfarle, bisogna assicurare sempre la presenza di un minimo di personale addetto, con spese non sempre completamente recuperabili dai servizi erogati.

Ma, quand’anche il volume di richieste di servizio in camera fosse alto, non sempre si riesce comunque a generare profitto adeguato.

“room service represented just 1.2 percent of total hotel revenue, down from 1.3 percent in 2011. And it continues to drop. The hotels do it for the convenience of the guest. Is it a profit center? No. Emphatically, I can tell you no,” (Paul Sacco, CEO and president of the Massachusetts Lodging Association).

Ecco perché anche negli hotel medio-alti cominciano a nascere politiche di tagli al room service: il New York Hilton Midtown, lo ha già eliminato, sostituendolo con un punto vendita “grab and go” al suo interno, addirittura affidato alla catena Herb ‘n Kitchen, dove gli ospiti possono direttamente acquistare e portare in camera il “comfort food” desiderato.


Grab and Go al New York Hilton Midtown, gestito da Herb n’ kitchen

24h Grab and Go al Grand Hyatt New York

Il Grand Hyatt Manhattan ha già da qualche anno ridotto le ore del room service, attivo solo fino alle 23:00.

Ancora, il Four Season Washington DC, il Public di Chicago, l’Hawaiian Hilton Village (tramite app “Fresh Connection”) e altri hanno semplificato l’offerta di room service con un express menu (anche per la colazione), fornito in buste di carta (brown paper bags) o vassoi di cartone (brown paper tray), lasciati davanti alla camera.

Risultano così eliminati i costi di lavaggio, tovagliato e stoviglie, ridotto il personale per la preparazione, presentazione e ritiro carrello (anch’esso sparito) e dunque annullato, almeno per il breakfast, qualsiasi contatto con l’ospite in camera.

Le reazioni della stampa cominciano a farsi sentire, con toni molto critici:

What’s the point of staying in a luxury hotel if you’re not going to be able to order breakfast in bed?” (Business Insider);

“Here’s a message to hotels that are cutting room service: Suck it up and pay the labor costs for room service, or don’t call yourself a “luxury hotel.” (John Fox, PKF Consulting).

Anche gli ospiti si fanno portavoce delle resistenze alla rinuncia del servizio in camera:

“There are so many hotels to choose from, If everyone is offering room service, I don’t know why I would pay the same rate with no service.”

Tutti concordano, comunque, sul fatto che, anche se queste misure cautelative sono giustificate da perdite economiche, e dunque comprensibili, non dovrebbero riguardare gli hotel che si fregiano della definizione “Luxury”. Tant’è che gli hotel che mantengono il 24h room service, ne mettono on line anche il menu, non più dato per scontato, ma anzi proposto quasi come servizio straordinario che faccia la differenza con i competitors fautori del cutting.

Al di là di tutto, la migliore risposta in merito l’ho ricevuta 16 anni fa! (perché il “problema” non è di questi giorni, come le controffensive citate, ma è tema di discussioni di meeting interni agli hotel da molti anni). Un mio ex principale, che preferisco ricordare come un Maestro, mi disse “..non preoccuparti più di tanto di quel segno rosso in bilancio, il servizio in camera va gestito come un’amenity, tipo la piscina. La piscina non ci porta alcun profitto diretto eppure potremmo mai rinunciarci?”

Ora, passiamo ai ristoranti.

Il rischio ricorrente per molti ristoranti d’hotel, anche aperti agli esterni, è proprio quello di non attrarre abbastanza presenze e quindi di non generare ricavi, necessari per ottenere buoni margini di profitto.

Gli operatori, anche nei casi peggiori, comunque, non rinunciano all’outlet ristorante, perché va considerato, anche qui, un’amenity insostituibile, come la piscina, la Spa, o una vista panoramica spettacolare, che, pur non generando direttamente utili, aumentano l’attrattività dell’offerta complessiva. Per capirci meglio, immaginate di pernottare in hotel per una sera, fuori piove o comunque non avete intenzione di uscire e cercare un ristorante che faccia al caso vostro, ma vi accorgete presto che in hotel non c’è modo di consumare la cena.. magari non c’è nemmeno il servizio in camera e come unica fonte di nutrimento dovreste affidarvi alla vending machine di merendine industriali, o in alternativa farvi violenza e prepararvi ad affrontare il maltempo.. 

Quindi, anche qui, siamo in presenza di servizi irrinunciabili, che però potrebbero ambire a significativi utili in bilancio, ma, come già molti luxury hotel fanno da tempo, bisogna ripensare il concetto di ristorante in termini di riposizionamento sul mercato.

Esso, infatti, va strutturato e promosso come ristorante indipendente, ossia in competizione con i migliori concorrenti esterni. E perciò, già in fase concettuale e di pianificazione, deve essere concepito come cellula interna al corpo dell’hotel, ma autonoma.

Un esempio che ho vissuto direttamente e che mi ha fatto scuola riguarda la catena Marriott: l’azienda appartiene all’omonima famiglia di estrazione mormone. Tale fede religiosa ha, almeno in passato, in qualche modo influito sulla gestione degli alberghi affiliati. L’avversione della dottrina per le bevande alcoliche, ad esempio, limita fortemente gli orari e la promozione esterna del lounge bar.

Ma l’errore che, a mio avviso, limitava di parecchio la promozione del ristorante era la propensione della catena Marriott a preferire servizi “family friendly”, con menu dedicati ai bambini, tovagliette da colorare etc..

Ma allo stesso tempo puntava anche a un’alta percentuale di esterni, tra residenti e business, presenti nell’area. I diversi segmenti potevano, in qualche modo, anche coesistere all’interno dello stesso hotel, ma non nel ristorante: per quale motivo, ad esempio, giovani professionisti dell’area limitrofa avrebbero dovuto ignorare le centinaia di ristoranti “cool e trendy” in strada per entrare in hotel, attraversare la hall, salire al secondo piano ed entrare in un ristorante con un concept ispirato alla “famiglia” e dagli arredi finto-classici e privi di personalità?

Immagino, in altre parole, che per puntare al successo di un ristorante all’interno del proprio hotel, si dovrebbero programmare due distinti business plan ad hoc, uno per l’hotel e un altro per il ristorante, puntando così contemporaneamente a diversi segmenti di mercato.

In questo senso si riscontrano esempi di successo già consolidato di ristoranti addirittura stellati, affidati a grandi chef di chiara fama nazionale o internazionale. Si tratta di “signature restaurant”, come ad es. La Pergola del Cavalieri Hilton di Roma, che vanta la presenza dello chef Heinz Beck, o il Palagio del Four Season di Firenze, affidato allo Chef Vito Mollica. Essendo sempre molto ben frequentati, lasciano immaginare anche bilanci invidiabili. Al di là, comunque, dei risultati economici, ne beneficia l’immagine stessa dell’hotel, che ne risulta esaltata e amplificata.

Tra altre recenti iniziative, grande successo potrebbe ottenere quella dell’Hilton Worldwide, che invita i propri affiliati a promuovere partnership con catene di ristoranti giovani e desiderosi di visibilità. Il sito www.hiltonrestaurantconcepts.com raccoglie, infatti, proposte ristorative, complete di concept, layout, menu, foto, di operatori interessati ad aprire un proprio punto vendita all’interno di un Hilton Hotel.

Il Vicepresidente del F&B Concepts Hilton Worldwide Beth Scott, dichiara:

“..L’obiettivo è quello di fornire ai nostri hotel delle idee uniche, in grado di proporre menu di grande appeal per gli ospiti”… “Si tratta, inoltre, di un’opportunità per chi gestisce locali f&b ed è interessato a far crescere il proprio marchio..”

Sono già operative alcune partnership nate da questo progetto, come quella tra il Washington Hilton e la catena The Coffee Bean & Tea Leaf e quella tra Härth e l’Hilton McLean Tyson Corner’s, in Virginia.


Ristorante Härth all’interno dell’Hilton McLean Tyson Corner’s, in Virginia

Non so se sia abbastanza chiaro ciò che potrebbe configurare lo scenario futuro, ma la catena Hilton Worldwide, leader del settore e per questo spesso imitata, sta iniziando a esternalizzare, oltre il servizio in camera, come già sottolineato (Fresh Connection, Herb ‘n kitchen), anche l’outlet ristorante… il che lascia immaginare che l’obiettivo futuro possa essere l’esternalizzazione dell’intero apparato Food & Beverage!

Ci ho provato, ma non riesco proprio a preoccuparmi al riguardo, quindi ho deciso di assecondare la mia natura e abbracciare il cambiamento, anche perché il mio giudizio non potrebbe spostare di una virgola la realtà…

Il dibattito sull’argomento è tutt’altro che esaurito, anzi, da anni cerca e sperimenta nuove soluzioni, e chiunque volesse immettersi e crescere nella realtà F&B di un hotel si troverà, volente o nolente, a parteciparvi e non potrà farsi trovare impreparato..!